Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo

Quando la riapertura dei Navigli diventa un progetto di transizione ambientale.

Mentre leggevo il bellissimo libro di Elena Granata “Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo”, mi sono imbattuto con sorpresa e felicità in un capitoletto finale incentrato proprio sul progetto di riapertura dei Navigli.

Come mi piace sempre ricordare, non dobbiamo pensare alla riapertura soltanto come un progetto di ingegneria idraulica, o come un tentativo malinconico di ritorno al passato. Tutt’altro.

La riapertura è un progetto di riqualificazione ambientale, un progetto urbanistico che strizza l’occhio al futuro della città, in accordo con i piani comunali esistenti (PUMS, Piano Aria e Clima..). Un progetto che punta a far diventare Milano una “Healthy City” e che consente di render la città, finalmente, a misura di persona.

Diminuzione del traffico e riduzione dell’inquinamento atmosferico e acustico, percorsi ciclabili protetti e dedicati, aumento di spazi di aggregazione, nonché aumento di spazi verdi e azzurri e riduzione isole di calore… questi alcuni dei benefici che si otterrebbero dalla riapertura.

Per non parlare della creazione di nuovi posti di lavoro e green jobs, derivanti proprio dalla creazione e manutenzione del canale, nonché ai servizi turistici e sportivi che avranno luogo lungo il corso d’acqua.

Per questo è necessaria la riapertura. Non è un mio o nostro capriccio, ma è il futuro ecologico della Città. Un progetto che ci riavvicina alla natura, quella natura che abbiamo da tempo lasciato fuori le mura cittadine, preferendole il cemento.

Rendering riapertura naviglio Martesana in via M. Gioia – Urbanfile

Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo

Qui sotto un estratto dal capitolo finale incentrato sulla riapertura dei Navigli del libro di Elena Granata, in cui emerge il pensiero dell’autrice in merito al progetto.

Ama pensare cosa incredibili e farle accadere

“Ci sono anni maledetti che cambiano il corso delle nostre città. Quell’anno per Milano è stato certamente il millenovecentoventinove, quando l’intervento urbanistico sulle città si sposò con una visione igienico-sanitaria che fece degli sventramenti, dei risanamenti, delle sanificazioni il proprio linguaggio culturale e progettuale.

[…] Vie d’acqua, porti, darsene, laghetti, centrali elettriche, chiuse: quando oggi parliamo con entusiasmo di nature-based solutions dimentichiamo di cosa siano stati capaci i placemaker del passato, di come l’ingegneria idraulica, l’agricoltura, l’economia politica e la generazione di paesaggi facessero parte di una grammatica condivisa di gestione del territorio. La cerchia interna di Milano, quella piú preziosa, lunga cinque chilometri, era stata resa navigabile attraverso la realizzazione di cinque conche, che permettevano di superare il dislivello effettivo tra le acque provenienti da nord (per esempio dalla Martesana) e quelle che si immettevano piú a sud nella Darsena

In quel 1929 l’acqua diventò un pericolo sociale da cancellare dall’immagine urbana e dalla memoria dei suoi cittadini. Riuscendoci, peraltro, attraverso una rimozione civile e un’amnesia culturale con cui la città non ha più fatto i conti. Non lo sanno certamente i giovani, ma non ne conservano il ricordo neppure i più vecchi.

Proviamo a immaginare Venezia, Annecy, Amsterdam, Amburgo, Bruges senza le loro vie d’acqua; proviamo a immaginare un giorno in cui i cittadini di quelle città si svegliano e ritrovano i loro più intimi canali trasformati in strade.
A Milano, tutto è accaduto in quattro settimane. In sole quattro settimane i Navigli sono stati sepolti e interrati. Via l’acqua, via gli animali, via la vegetazione, via i rumori delle chiuse, via tutti quei piccoli rituali e quelle quotidiane consuetudini che scandiscono la vita di tutte le città d’acqua…

I canali per Milano non erano solo ornamento, come lo saranno poi nell’immaginario turistico, la Darsena o i due Navigli Grande e Pavese. Quel sistema ramificato e complesso di acque e di terre, costituiva uno dei più evoluti e innovativi ecosistemi d’Europa, sintesi perfetta di ingegno, di natura, di funzionalità e di estetica.

I cinque Navigli lombardi hanno strutturato e organizzato una rete di residenze, castelli, monasteri, mulini, fabbriche, centrali idrauliche: un paesaggio senza eguali in tutta Italia. Un’economia agraria e industriale che sapeva produrre ricchezza ma senza abdicare alla più sincera natura e al legame con il paesaggio.

Ci sono morti generative, una fine che diventa un nuovo inizio, e poi ci sono gli inutili sacrifici della storia che, cancellando natura e architettura, rimuovono immaginari e sensibilità dalle città. La cancellazione dei Navigli appartiene a questa seconda opzione: si è innescata la sistematica distruzione di un paesaggio che aveva più di mille anni di storia.

I Navigli interni sono la nostra High Line. Sono lì sotto. Sepolti ma vivi. Dimenticati, ma ancora pulsanti.

Oggi che si parla di transizione ambientale, di forestazione urbana, di ecosistemi da riscoprire, il progetto di riapertura dei Navigli mi pare il progetto più lucido e visionario che la città possa darsi nel nostro tempo…”

Se ti interessano le tematiche di innovazione urbana, progettazione sostenibile e architettura, allora ti consiglio di leggere questo libro!


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